Nell’introduzione alla traduzione italiana di Andrea Landolfi (1995), Italo Alighiero Chiusano accenna a una fantasiosa etimologia anglo-germanica del cognome Törless (“senza porta”) per annunciare le caratteristiche principali del giovane protagonista: chiusura, isolamento e mancata comunicazione. Personalmente, le ho trovate affascinanti all’inizio ma irritanti fino a quando non ho capito a cosa fossero funzionali. Avendo letto questo romanzo in età adulta ho faticato a identificarmi senza filtri nell’emotività del protagonista, pur comprendendola perché sono stato un adolescente tormentato a mia volta. Ha catturato la mia attenzione di adulto, però, il comportamento di Beineberg e Reiting, adolescenti aguzzini dalla personalità narcisistica. Mi è sorta l’esigenza di rispondere a questa domanda: in qualità di insegnante-educatore, come affronterei oggi una situazione come quella creata da loro? Una risposta è arrivata, ma non le attribuisco un carattere definitivo: educare all’emotività per dare strumenti di lettura e gestione di sé, instaurare una comunicazione efficace a partire dal prendere sul serio, agendo per sottrazione di pregiudizi, le parole degli adolescenti.
Scena tratta dall’adattamento cinematografico del 1966 diretto da Volker Schlöndorff
Non hanno certo agito mossi da queste riflessioni, comprensibilmente in base al contesto storico-educativo, i professori di Törless. Il sorprendente grado di maturità umana a cui, solo sedicenne, lui giunge in conclusione della vicenda non è neanche minimamente intravisto da chi avrebbe dovuto non solo accorgersene, ma incitarne lo sviluppo:
“Quando fu uscito, i professori si guardarono sconcertati. Il direttore scosse il capo, indeciso. Il professore di classe ritrovò per primo la voce. «Eh, questo piccolo profeta ha voluto tenerci una lezione. Ma beato chi ci capisce qualcosa! Quanta agitazione! E poi, questo voler complicare cose tanto semplici!». «Ricettività e spontaneità di pensiero», osservò condiscendente il matematico. «Mi sembra che egli abbia posto un’attenzione eccessiva sull’aspetto soggettivo delle nostre esperienze, e che ciò lo abbia turbato e indotto a quelle oscure similitudini». Solo l’insegnante di religione taceva. Nei discorsi di Törless aveva colto spesso la parola anima, e volentieri si sarebbe preso cura di quel giovane. Solo che non capiva bene che cosa quello aveva voluto intendere. Fu il direttore a porre fine a quella situazione d’incertezza. «Io non so che cosa davvero si agiti nella testa di questo Törless; comunque, egli si trova in uno stato di tale sovraeccitazione che la sua permanenza nell’istituto non è più opportuna per lui. Il suo nutrimento spirituale richiede una più assidua cura di quella che noi possiamo offrirgli»”.
Può essere quantomeno accettabile che il direttore, nell’evidenziare - inconsapevolmente - i limiti di una scuola che non sa gestire la “sovraeccitazione” di un adolescente, proponga un trasferimento di Törless in una sede più opportuna per il suo “nutrimento spirituale”; inaccettabile resta invece l’avere prima scelto di ignorare e poi denigrare la riflessione che ha condotto il giovane ad affermare: “Ora so: le cose sono le cose e lo saranno sempre; ed io continuerò a vederle ora in un modo, ora in un altro. Ora con gli occhi della ragione, ora con gli altri… E non cercherò più di mettere in relazione i due modi….”. Parole sprecate, se indirizzate a chi non sa coglierne la potenza.
Ugualmente inaccettabile è l’aver espulso un Basini bisognoso di trovare un appiglio nelle figure di riferimento del sistema, le quali hanno invece frettolosamente archiviato i disordini nati nell’ambiente scolastico in nome di un ritorno presto a una “normalità” sulla quale credevano di esercitare il controllo.
Ora, magari queste sono riflessioni inapplicabili a una narrazione della scoperta delle pulsioni umane da parte di adolescenti di una scuola d’élite dell’Impero austro-ungarico. Se non fosse che Chiusano afferma: “Se Musil, consapevolmente o per istinto, ha voluto fare di questa sua opera, anche (e quest’« anche » va sottolineato tre volte) una satira o un atto di accusa all’educazione dei giovani praticata allora nell’Austria-Ungheria, lo ha attuato soprattutto denunciando una carenza, un vuoto di educazione, non una sua esasperata e affliggente onnipresenza. Infatti appar chiaro che non solo in quell’istituto non si trasmettano valori morali o spirituali (religione, filosofia, civismo, amor patrio, orizzonte storico, tolleranza, amicizia, rispetto delle minoranze, ecc.)” ma addirittura i ragazzi sembrano lasciati in balia di loro stessi “con totale esclusione o minimizzazione quasi caricaturale dei loro maestri”. Sperimentare pulsioni ed emozioni manda in cortocircuito adolescenti di ogni tempo ed estrazione e, nel caso del romanzo ma non necessariamente soltanto in esso, li spinge ad atti estremi altrimenti inconcepibili. L’estremizzazione di minacce, denigrazioni, torture, annientamento dell’altro e, a specchio, godimento nel farlo deriva dall’assenza di supporto di tutte le figure educative e da quel miscuglio di segretezza, connivenza e fanatismo di chi, adolescente, si sente invincibile per almeno due ragioni: manca di consapevolezza dei limiti imposti dalla logica e dalla morale e, cosa peggiore, non riceve adeguata formazione per la gestione dell’io profondo (risentendone permanentemente).