Saba scrive questo romanzo, lasciandolo incompiuto, durante un periodo di malattia. Lo concepisce, sin dal principio, come opera destinata a una ristretta cerchia di amici e non manca di farlo presente al lettore nel brevissimo capitolo "Quasi una conclusione": tre o quattro [amici] in tutto.
Mi sono sentito catturato da quelle che l'autore stesso ha indicato come vere novità dell'opera e motivi per "arrendersi" di fronte a ciò che stava creando (dall'introduzione di Maria Antonietta Grignani): il linguaggio (nella sua più ampia accezione possibile) che parlano i personaggi e l'aspetto psicologico legato ai nodi irrisolti della biografia di Saba (che l'autore avrebbe dovuto esplicitare per dare corpo allo sviluppo della relazione tra Ernesto e Ilio).
Sono però rimasto affascinato soprattutto dall'intreccio continuo di due piani narrativi.
Nel primo, Saba narratore onnisciente ci rende edotti dell'emotività nascosta dietro fatti e parole dei personaggi e contribuisce a creare lo stridore non spinto tra la sua prosa in italiano e il triestino "lingua viscerale" parlato da Ernesto e dagli altri personaggi al di fuori dei confini della moralità borghese. In particolare, grazie a parentesi e incisi, Saba mette spesso a confronto il punto di vista di un Ernesto adolescente (in balia delle scoperte della sua età e della maturazione di convinzioni, talvolta errate perché dettate dall'emotività come nell'episodio della fonte e nell'adorazione di Ilio) con il punto di vista dell'altro protagonista della sequenza (che, generalmente, è diametralmente opposto a quello di Ernesto) o un punto di vista terzo (la realtà dell'intreccio). Di sempre difficile decifrazione per gli essere umani in generale, la realtà (dell'intreccio) "denuncia" la percezione distorta che ne ha Ernesto in quanto essere umano non ancora padrone delle sua sfera emotiva. Il risultato è un ritratto di adolescente senza tempo, il cui tumulto emotivo culmina nella patetica (alla greca) confessione di essere stato con un uomo e con una prostituta rivolta alla madre (per cui il figlio è, e sempre sarà, un "puro colombino" nonostante la tarda adolescenza).
Nel secondo, si rivolge al lettore per tradurre in italiano alcune parole triestine di non immediata comprensione, fornire retroscena, presentare espedienti di narrazione a sostegno dell'intreccio e, in ultimo, alzare bandiera bianca di fronte alla complessità di quanto stava delineandosi ("Questa non è - è chiaro - tutta la storia del giovane Ernesto. [...]. Disgraziatamente, l'autore è troppo vecchio, troppo stanco ed esasperato per sentire in sé la forza di scriverle" [le "almeno altre 100 pagine" ipotetiche con cui far proseguire la storia di Ernesto fino alla conclusione dell'adolescenza]).
Il quinto, e ultimo, capitolo si conclude, infatti, così: "Due ragazzi che, sulle scale del loro maestro di violino, s'intrattengono a parlare dei loro studi, e si stringono, congedandosi, la mano, sarebbe parso, a chiunque l'avesse osservato, un fatto banale della vita d'ogni ora. Invece - per la particolare costellazione sotto cui nacque, e per le sue conseguenze remote - era (ogni altra considerazione a parte) un avvenimento raro, quale può prodursi, sì e no, una volta sola in un secolo e in un solo paese".